Alla lavagna la Maestra scrive: “Deficiente e colto. Bianco e nero. Omosessuale ed eterosessuale. Montagna e mare. Bellezza e bruttezza. Stupore e indifferenza. Caldo e freddo. Amore e odio. Immaginazione e concretezza. Letame e stelle. Aquila e pollo. Sogno e delirio. Inventiva e ponderazione. Abitudine e innamoramento. Vecchio e giovane. Talento e inettitudine. Meraviglia e stupidità. Azione Cattolica ed evangelizzazione di strada. Passione e disamore. Altezza e profondità. Stravaganza e conformismo. Cielo e terra. Freddo e caldo. Stretto e slegato. Ad ogni sostantivo, bambini, corrisponde il suo contrario”.
Uno degli scolari della II^c elementare alza la mano e chiede: “E il contrario di presepio, qualè?”.
La maestra pensa. Si gratta la testa, si sistema la gonna, nasconde la sua impreparazione. E, ridendo, scrive: “oipeserp”. Una bambina si alza, prende il gesso, cancella quell’idioma farabutto e scrive: “Ascensione”.
Il giorno prima la maestra aveva annotato sul suo libro nero: “la bambina della terza fila a destra è sempre distratta. Manifesta disinteresse completo verso la mia lezione”.
“Ascensione”. Ovvero: maestra, ha mai letto il Vangelo?
Ci aveva provato lei, ma a pensarci adesso era parsa proprio ridicola la mia maestra di catechismo. Ci parlava dell’Ascensione – a noi bambini che andavamo a catechismo col pallone nello zaino - aggrappandosi ad un sentimentalismo di vecchia data, ormai scaduto e stanco, ad immagini consunte, disuse, affannose:
“Gesù, dopo aver tanto faticato, aveva il diritto di andarsi a riposare in Paradiso, dove anche noi, al termine del soggiorno in questa valle di lacrime…”. Bastava solo che ci facesse aggiungere in coro: “L’eterno riposo dona a tuo Figlio, Signore, splenda a Lui la luce perpetua. Riposi in pace” e il funerale era celebrato. Magari intervallato da qualche caramella per festeggiare l’attesa fine dell’anno di catechismo. Cioè l’
Ascensione era, per lei catechista improvvisata, un periodo di “convalescenza” da passare in alta quota, dove l’aria è salubre, gli infermieri gentili, la struttura ospedaliera adatta. Un Gesù in versione paziente. Che succedeva, in ordine cronologico, al “no global del Tempio”, al “falegname del cielo”, al Gesù “testa inclinata a destra”, all’Harry Potter biondo di Nazareth”, al “Muccino di Tiberiade”. E noi bambini ascoltavamo incoscienti! Forse dubbiosi!
Dubbiosi al pari degli apostoli che, rannicchiati sulla cima di quel monte, assistettero in presa diretta alla scalata verso il cielo del loro Gesù. Matteo, evangelista per conto Terzi, sintetizza il tutto con un verbo pesante:
“Essi però dubitarono”. Cioè non credevano. Forse – spinti dalle onde lontane di quel mare amico – prostrati a terra si sentivano dire: “Ricorda Pietro, il Maestro ti ama e tu pascolerai le sue pecore. Ricorda, Giovanni, che hai messo il capo sul suo costato e hai raccolto il battito di un cuore strano. Ricorda, Tommaso, che hai dubitato perché volevi vederlo. E adesso che l’hai visto non vuoi perderlo mai più. Ricorda, Filippo, che chiedesti di vedere il Padre. Ricorda, Giacomo, quell’improvvisata impresa edile sul Tabor: tre tende da montare in un batter d’occhio. Ricorda, Matteo, quel banco delle imposte abbandonato per Amore. Ricorda, don Marco…” Come dire: “Ricordate e partite”. Ricordi tristi, pesanti, improvvisati macigni su spalle troppo gracili per reggerli.
Forse era meglio la Croce: almeno lo potevano guardare e toccare, imbalsamare e ungere, adorarlo e parlargli. Piangere, attendere, sperare. Perché se presepio significa “fare siepe”, muri, stelline e spiagge di muschio attorno a quel Bambino per imprigionarlo in una festa che richiama la nostra infanzia, con l’allegria dei nostri ricordi raccontati attorno ad un camino acceso… oggi ci pensi, ti chiedi: dove sono, a cosa sono serviti tutti quei presepi? Quel Bambino, diventato maggiorenne, è scappato! Inutile nasconderlo: avremmo preferito pure noi un dio che restasse imprigionato dentro le nostre zolle, magari anche un dio di pietra come i vecchi idoli pagani, a cui tingere la fronte, ballare attorno, imprecare, sognare, ripartire. Un Dio da esporre in Chiesa per la raccolta delle offerte, a cui intitolare un campetto perché il nome “tira gente”, un Dio da tirare in ballo in ogni occasione: politica, religiosa, pastorale. Un Dio - manichino versione “miele ambrosoli”. O, a scelta, “mulino bianco”.
Invece Lui scappa, per insegnarci a scappare! Il tempo di vederlo sparire che due uomini, vestiti di bianche vesti, iniziano a provocare i discepoli, a farli riflettere, a spingerli fuori:
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. L’aveva detto prima di partire: “Andate, dunque, e fate miei discepoli tutti i popoli”. Noi abbiamo tradotto:
“State qui e ammaestrate tutte le genti”. Cioè lo abbiamo tradito appena partito. Ci siamo messi giacca e cravatta, abbiamo inforcato libri di elucubrazione, siamo saliti sulle cattedre, sui pulpiti, sui palchi. Abbiamo interrogato e spiegato, messo i voti e bocciato, condannato ai lavori forzati e spalancato bocciature. In nome suo! Peccato avesse raccomandato l’esatto contrario. Cristo li spinge fuori, li lancia all’avventura, li vuole all’assalto del mondo. Con l’amore. Loro (noi) vogliono star lassù, ripiegati nei loro patronati, nascosti nelle liturgie fumose, negli abiti sopraffini e ingessati. Sotto l’ombra del campanile. A chiacchierare, sussurrare, zigzagare nei ricordi appassiti. Lui li voleva dentro le strade, dubbiosi ma coraggiosi. Titubanti ma innamorati. Impauriti ma feroci nell’amore. Fragili, ma scelti da Lui. Per Lui. Con Lui.
Invece, mentre parlava, si sentì dire:
“Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il Regno d’Israele?”. Altro che attesa di cielo: chiedevano risultati, impazienza, successo immediato. Forse avrebbero dovuto chiedere (dovrei chiedere) di rimandare la scadenza. Perché mi sento ancora impreparato. Non ho imparato a sufficienza la lezione. Non mi sento pronto. Dammi qualche altra ripetizione, Signore. Tu sei un Maestro unico, io uno scolaro “ritardato”. Invece da pecore si trasformarono, in un batter di ciglio, pastori. Scolorando la bellezza della loro chiamata!
Così lo persero di vista. Perché non capirono che il suo era stato uno scherzo: salire al cielo per nascondersi ovunque nella terra! Bastava scendere, abbandonare l’oratorio costruito sul monte, e rischiare. Bastava questo e lo avrebbero trovato nelle brughiere spazzate dal vento, nei fienili sconosciuti divenuti locande improvvisate, sui crinali delle montagne, sotto il letto o sui tetti della città. Negli occhi della gente. Di Carmelo, il pescatore. Di Bernardo, l’assassino. Di Giulio, il politico. Di Antonio, il vescovo. Di Luigi, che ha smarrito la ragione. Voleva stupirli: saggiando prima la loro fiducia.
Fu così che tra gli uomini l’Ascensione divenne tristezza.
Tradendo la sua originaria sorpresa celeste.
Scrive
G.R.Kirkpatrick:
“L’uomo è un essere dotato di due estremità: una su cui sedere, una su cui pensare. Il successo e il fallimento dipendono da quella usata di più”. La novità del mondo attuale è che per aver successo è meglio usare la prima delle due estremità.
Esagero?
"Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo"
GOD BLESS YOU!
Buona settimana