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martedì 21 aprile 2009 - ore 17:54
Anatomia di un rapimento
(categoria: " Cinema ")
Avevo voglia di scrivere, scrivere qualcosa di superfluo, che non mi fosse chiesto da nessuno e che nessuno sia forzato a leggere, perciò ho deciso di affrontare un argomento che mi piace molto. Parliamo perciò di cinema. E partiamo da un maestro quale è Kurosawa. Vorrei però soffermarmi su un film che non ha a che vedere con il genere per cui è conosciuto in Occidente, quello dei film in costume.
Anatomia di un rapimento , infatti, appartiene al genere gendaigeki (film con ambientazione contemporanea). Il film è del 1963 e segue un precedente trittico sempre ambientato nell’epoca contemporanea, comprendente
L’angelo ubriaco,
Il duello silenzioso e
Cane randagio: in questi tre film l’obiettivo è mostrare la vita nel periodo post-bellico (sono della fine degli anni ’40), la decadenza che si è abbattuta nella capitale dopo la fine della guerra. La storia, in breve, narra il tentativo di rapimento del figlio di un ricco uomo d’affari, Kingo Gondo (Mifune) che però non va a buon fine a causa di uno scambio di persona: infatti non è il figlio di Gondo ad essere rapito, ma quello del suo autista. Non rivelerò altro della trama, per non rovinare il gusto di seguire le indagini, che occupano tutta la prima parte del film, limitandomi a sottolineare che Gondo viene messo a dura prova, costretto a decidere se pagare l’esorbitante somma del riscatto col rischio di far cadere in disgrazia sé stesso e la propria famiglila o se rimanere freddo ed impassibile di fronte al dolore del suo autista e padre del ragazzino rapito.
Il titolo originale dell’opera, non rispettato dalla traduzione, è
Tengoku to jigoku, cioè
Paradiso ed Inferno e proprio di questo si tratta, di un confronto tra le due anime della città: l’empireo mondo delle famiglie abbienti, simboleggiato dalla casa di Gondo sulla collina, che domina tutta la città e l’inferno dei bassifondi (titolo di un altro film di Kurosawa, del 1957), ricostruito nella sua dimensione più claustrofobica. Proprio la contrapposizione, visiva, architettonica ancor prima che morale permette di calarsi nella storia narrata. D’altronde, se all’inizio parteggiamo per il facoltoso Gondo, si finisce, giunti all’estremo opposto della pellicola, per simpatizzare col rapitore o per lo meno a capire il movente del suo gesto disperato. Kurosawa, ormai qurantatreenne, riesce a mio modesto parere a gestire perfettamente un ruolo ben lontano dagli storici personaggi interpretati
Rashomon e
I sette samurai e in questo viene aiutato dall’aspetto più maturo.
Anatomia di un rapimento, quindi, è sì un poliziesco, un noir, ma è anche un film di denuncia; anzi, il progetto iniziale del regista era quello di porre il rapitore al centro della vicenda e il non essere riuscito a girare un film meno legato al cinema popolare statunitense lo lasciò insoddisfatto. D’altra parte, ritengo degna di nota la sequenza ambientata nei viottoli tappezzati di tossicodipendenti, in grado di descrivere tutta la disperazione degli emarginati.
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